C’era una volta una sera di primavera abbastanza mite e dal cielo terso da poter scorgere un soffitto di stelle. Una sera nella quale per qualche caso fortuito riesci a varcare la soglia di un palazzo incantato, fatto di mattoni in cotto color dei tramonti, di quelli più caldi. E come i tesori più belli, al suo interno nasconde un cortile che sembra disegnato su misura per un sogno, una casa con le stanze che ricordano le ambientazioni delle favole e un giardino illuminato da mille candele e custodito da statue. Cammini fino in fondo al giardino, anche se oramai le mille candele sono alle tue spalle e scorgi la sagoma di un signore serio, vestito di scuro e tutto d’un pezzo. Costui ti bisbiglia, quasi per non disturbare, quasi per non spezzare la magia, che “no, non si può andare oltre: perché là c’è la vigna, la vigna di Leonardo da Vinci”
Solo allora ti raccontano la favola, quella vera: in questo luogo è rinata la vigna di Leonardo da Vinci. Siamo in corso Magenta 65, dove più di cinquecento anni fa Ludovico Il Moro regalò a Leonardo un vigneto di circa 8.000 metri quadrati. Per rendere l’idea, si estendeva da qui a Porta Romana. Fu un gesto di riconoscenza per “le svariate e mirabili opere da lui eseguite per il duca” e la scelta di questo dono non fu casuale in quanto Leonardo proveniva da una famiglia di vignaioli e il vino rientrava fra i suoi molteplici interessi, come dimostrano svariati documenti rinvenuti, quali appunti o liste della spesa. Ciò avvenne proprio nel periodo in cui Leonardo risiedeva a Milano ed era impegnato a dipingere L’Ultima Cena nel cenacolo di Santa Maria delle Grazie.
Leonardo era molto legato a questo possedimento, un vincolo alla città di Milano, tant’è che non mancò di chiedere fermamente la sua restituzione quando gli venne espropriato dai francesi durante l’invasione della città e di destinarlo come ultimo lascito diviso in due parti eguali: l’una al suo fedele servitore Giovanbattista Villani, l’altra al suo allievo Gian Giacomo Caprotti, anche detto “il Salai”. Nei secoli che vennero, nonostante le trasformazioni urbanistiche, la vigna rimase miracolosamente intatta. Nel 1922 lo storico dell’arte Luca Beltrami la visitò e la fotografò pochi istanti prima che fosse smantellata per dei lavori di restauro previsti dall’architetto Piero Portaluppi. Resta un’immagine in bianco e nero avvolta nel tradizionale mantello della nebbia milanese. Portaluppi volle preservare nel giardino “un rettangolo alberato dove ancora resiste, come sfida al tempo, una antica pergola di vite, il residuo della vigna vinciana”.
Furono successive vicissitudini, quali un incendio e i bombardamenti del 1943 a ridurre e poi distruggere ciò che ne restava. Ma la buona stella che ha protetto l’Ultima Cena (ndr resistette miracolosamente ai bombardamenti avvenuti nella notte del 16 agosto del 1943) ha esteso la sua tutela anche alla vigna: le radici, sotto metri di terra, sono state recuperate e grazie a Confagricoltura, sono rinate nel rispetto dei filari e del vitigno originari. Il vitigno è stato identificato, si tratta di Malvasia di Candia Aromatica, uno dei più antichi, di origine greca, molto utilizzato nel Cinquecento.
Expo ha creato l’opportunità di accedere e visitare questo sito, ascoltandone la storia. Ho deciso di aspettare l’autunno perché più ogni altra è la stagione che regala i colori più belli. Un caldo e assolato pomeriggio di questo atipico ottobre mi do appuntamento con una cara amica per godere di questa magia. Semplicissimo prenotare online, gentilissimi gli addetti alla ricezione, gruppi di poche persone, cielo blu cartolina e raggi di sole completano alla perfezione. Il cortile assomiglia ad un museo a cielo aperto, con capitelli e statue e una bicicletta appoggiata con fare causale che aggiunge un tocco di quotidianità. Sulla destra si trova la porta dello studio dell’architetto Piero Portaluppi, protetta da un segugio in marmo e contraddistinta da una piccola casetta in ferro battuto appesa allo stipite. Era il battente della porta dell’appartamento nel quale egli viveva e lavorava ed è il simbolo dei suoi studi sulla casa. Da notare inoltre il simbolo del palazzo, una spirale composta da triangoli, che compare su cancelli e inferriate come stemma.
Entrando nel Palazzo degli Atellani si riescono quasi a immaginare occasioni ed eventi avvenuti tra queste mura, nella libreria e nella sala da pranzo. Questo non è un museo ma una casa – a oggi ancora abitata – ed entriamo in punta di piedi nelle scene di vita familiare dei suoi abitanti. Il gatto che qui vive ci accoglie e ci mette ancora di più a nostro agio e ci adagia in una dimensione di intimità. Noi, con le nostre audio guide, passeggiamo fino al fondo del giardino, il Giardino delle Delizie, assaporando ogni profumo e ogni suono, accarezzando ogni sfumatura di colore e di materia. Siamo fortunate a poter ammirare il sole che tramonta alle nostre spalle e ne usciamo alleggerite, arricchite. Sempre più convinte che queste coordinate abbiano qualcosa di magico.